martedì 3 maggio 2016

L'insostenibile leggerezza degli isotopi stabili - Seconda parte

In questo post dovremo affrontare un altro argomento ostico, ovvero attraverso quali principi gli isotopi stabili ci possono fornire dati sull'ambiente, la paleodieta o il clima (quest'ultimo è il caso che prendiamo qui in esame a titolo di esempio).
Isotopi diversi di uno stesso elemento non sono presenti, sulla Terra, in quantità uguali. Nel caso del Carbonio, ad esempio, se prendiamo in considerazione i due isotopi stabili 12C e 13C ci accorgiamo che il primo è molto più abbondante del secondo, dal momento che rappresenta poco più del 98,8% del totale del Carbonio sul nostro pianeta, mentre 13C è presente solo con un valore di poco superiore all'1,1%. La frazione restante, appena lo 0,0000000001% (ovvero 1x10-10 %), è rappresentata dall'isotopo radioattivo instabile 14C. Il rapporto tra il numero di atomi di un determinato isotopo di un elemento e il numero totale di atomi dell'elemento stesso si chiama abbondanza isotopica; di solito in natura l'isotopo più leggero (quindi con un minore numero di neutroni) è quello più abbondante.
Gli isotopi hanno, inoltre, un'altra caratteristica fondamentale particolarmente utile per le nostre analisi: poiché, come abbiamo visto, gli isotopi di uno stesso elemento hanno massa diversa, le loro proprietà fisiche e chimiche sono diverse. In particolare gli isotopi più pesanti presentano tendenzialmente legami più forti con gli altri atomi di un composto e questo fa sì che le reazioni chimiche tendano a concentrare in proporzioni diverse gli isotopi di un determinato elemento nelle sostanze che esse finiscono con il formare e nei reagenti utilizzati. Questo processo prende il nome di frazionamento isotopico.
Immagino già i volti perplessi di buona parte dei miei lettori, ma il principio è più semplice di quanto sembri a prima vista e basterà un piccolo esempio per comprenderlo meglio.
Riempiamo d'acqua una pentola e mettiamola su un fornello della cucina. Le molecole di H2O all'interno della pentola conterranno i due più comuni isotopi dell'Ossigeno (16O e 18O) in una determinata proporzione (diciamo, per comodità 16O = 99,76% e 18O =0,20%). Ora accendiamo il fornello e portiamo ad ebollizione producendo vapore acqueo: la molecole di acqua contenenti 18O (H218O) evaporano con maggiore difficoltà rispetto quelle che contengono 16O (H216O) – più correttamente si dice che esse hanno una tensione di vapore più bassa. Questo vuol dire che, man mano che l'evaporazione continua, l'acqua della pentola conterrà una percentuale di 18O sempre maggiore: l'isotopo più pesante è quindi più concentrato nel liquido bollente rispetto a quanto osservabile nel liquido a temperatura ambiente.
Tutto più chiaro adesso? Bene, con un ultimo sforzo cercherò ora di spiegare come il frazionamento isotopico ci permetta di ricavare informazioni su climi, ambienti e alimentazione nel passato, il tutto continuando a ragionare sui due isotopi più comuni dell'Ossigeno.
L'evaporazione dell'acqua non avviene solo quando la facciamo bollire. Se lasciamo mezzo bicchiere d'acqua in giro per casa vedremo che la quantità di liquido diminuirà, anche se lentamente, con il passare del tempo. L'acqua degli oceani evapora in continuazione, anche se non c'è nessun fornello acceso che la faccia bollire, essa tenderebbe, perciò, a perdere 16O e ad arricchirsi di 18O, tuttavia l'acqua evaporata torna ai mari, direttamente o indirettamente attraverso i fiumi, sotto forma di piogge e quindi il rapporto tra 16O e 18O si mantiene costante. Nelle fasi climatiche più fredde, tuttavia, le calotte polari e i ghiacciai perenni si estendono “imprigionando” acqua che non torna ai mari che, quindi, si arricchiscono di 18O. Nei periodi a clima più caldo, viceversa, lo scioglimento dei ghiacci immette nuova acqua in circolo che riequilibra il rapporto e che, se il clima è così caldo da provocare lo scioglimento di una quantità di ghiaccio molto elevata, può addirittura invertire la tendenza aumentando la concentrazione di 16O.
In pratica, nei periodi in cui il clima globale era più caldo dell'attuale si aveva una concentrazione maggiore di 16O rispetto a quella osservabile oggi, mentre si avevano valori di concentrazione minore quando il clima globale era più freddo. Resta solo un problema: dove trovare acqua “del passato” da cui ricavare i dati? Una prima possibilità sono i carotaggi condotti in ambienti la cui temperatura esterna non sia mai superiore agli 0° C (calotte polari o ghiacciai perenni), una seconda possibilità è quella di sfruttare, in modo indiretto, i gusci calcarei di piccoli organismi marini, i foraminiferi. I loro gusci sono composti, infatti, essenzialmente da carbonato di Calcio (CaCO3) che, come visibile dalla formula chimica, comprende tre atomi di Ossigeno. Questo Ossigeno è ricavato direttamente dalle acque in cui i foraminiferi vivono (o vivevano) e, perciò, ne rifletteranno le percentuali di 16O e 18O: per una stessa località della terra i gusci di foraminiferi vissuti in epoche più fredde presenteranno valori di concentrazione di 18O più elevati, tanto maggiori quanto più freddo era il clima. Molti dei foraminiferi fanno parte del plancton che pullula nelle acque oceaniche e sul fondo degli oceani si ha una specie di pioggia continua di questi organismi morti che restano intrappolati nei sedimenti che, secolo dopo secolo, millennio dopo millennio continuano a formarsi. Bingo! A questo punto ho tutto ciò che mi serve: isotopi dell'ossigeno, campioni contenenti enormi quantità di organismi marini, strati e strati in grado di coprire intervalli cronologici estesi e databili con varie metodologie.

Con una serie di carotaggi dei fondali marini è quindi possibile ricostruire in modo puntuale le oscillazioni climatiche del passato. In pratica, si prelevano carote di sedimenti lunghe decine di metri, si campionano i sedimenti a distanze dell'ordine di alcuni centimetri e dai campioni si estraggono i foraminiferi. Si procede quindi con una misura del contenuto di 16O e 18O nei foraminiferi dei vari campioni e si traccia, calcolando i parametri opportuni, una curva delle variazioni rilevate in funzione della profondità. Datando opportunamente i vari campioni, infine, la curva può essere messa in relazione alla cronologia fornendoci perciò una misura delle oscillazioni nel volume dei ghiacci sulla Terra e, quindi, del clima.

Curva SPECMAP basata sugli isotopi dell'Ossigeno che illustra le oscillazioni climatiche degli ultimi 800.000 anni (Imbrie, J., J.D. Hays, D.G. Martinson, A. McIntyre, A.C. Mix, J.J. Morley, N.G. Pisias, W.L. Prell, N.J. Shackleton, 1984. The orbital theory of Pleistocene climate: support for a revised chronology of the marine oxygen isotope record, In: A. Berger, J. Imbrie, J. Hays, G. Kukla, B. Saltzman (Eds.), Milanković and Climate, Part 1-- NATO ASI Series, C126: 269-305; Reidel, Dordrecht)

In realtà quello che viene utilizzato per produrre le curve climatiche con gli isotopi dell'Ossigeno ( così come per gli studi sugli altri isotopi stabili) non è, in genere, né la semplice quantità dei due isotopi, né il semplice rapporto frazionario R = 18O/16O (l'isotopo più leggero viene messo al denominatore) detto Rapporto di abbondanza, ma una quantità diversa indicata dal simbolo d%0   che illustreremo nel prossimo post.

venerdì 22 aprile 2016

L'insostenibile leggerezza degli isotopi stabili - Prima parte

Le applicazioni delle tecniche di analisi degli isotopi stabili sono diventate, nel corso degli ultimi decenni, un argomento particolarmente “caldo” nel campo della ricerca bioarcheologica. Credo possa, perciò, essere interessante pubblicare una serie di post ad esse dedicati, in modo da illustrarne le potenzialità, evidenziarne le criticità e i punti deboli, chiarire quali informazioni è possibile ottenere dalla loro applicazione e, soprattutto, quali sono alcune delle condizioni necessarie affinché i risultati eventualmente attesi possano essere raggiunti. In questo primo post verranno introdotti alcuni concetti base sugli isotopi stabili e come le caratteristiche di questi ultimi ci aiutino a rispondere ad alcuni frequenti quesiti della ricerca bioarcheologica.

La struttura di un atomo è, per sommi capi, ben nota a tutti noi. Facendo riferimento al modello proposto da Rutherford e poi perfezionato da Niels Bohr ciascun atomo è costituito da un nucleo avente carica positiva e da un certo numero di elettroni ruotanti attorno ad esso e dotati di carica negativa. Un atomo presenta cariche positive – rappresentate dai protoni del nucleo – e negative – gli elettroni – in eguale numero ed è perciò neutro dal punto di vista della carica elettrica.
Il numero di protoni presente nel nucleo caratterizza un determinato elemento ed esprime il cosiddetto Numero Atomico (Z). Ad esempio l'Idrogeno (Z= 1) ha un solo protone (e quindi un solo elettrone), l'Elio (Z=2) ne ha due, l'Ossigeno (Z= 8) ha otto protoni e così via.

 

Nel nucleo, oltre ai protoni, possono essere presenti altre particelle prive di carica, dette neutroni che, ovviamente, con la loro presenza influiscono sulla massa dell'elemento considerato rendendolo più o meno “pesante” quando presenti in minore o maggior numero. La somma di protoni e neutroni presenti nel nucleo si chiama numero di massa (A) e, poiché il numero di neutroni non dipende dal numero dei protoni, possiamo avere elementi che, mantenendo costante Z, hanno valori di A differenti: gli isotopi. Ad esempio l'Ossigeno può avere tre isotopi stabili (vedremo poi cosa vuol dire “stabile”) con valori di A pari a 16, 17 e 18; ciò significa che nel nucleo, oltre agli 8 protoni che caratterizzano l'elemento Ossigeno, sono presenti, rispettivamente, 8, 9 e 10 neutroni. Allo stesso modo il Carbonio, come visibile nella figura qui sotto, ha tre isotopi poiché il suo nucleo può presentarsi formato da 12 (6 protoni + 6 neutroni), 13 (6 protoni + 7 neutroni), e 14 (6 protoni + 8 neutroni) particelle.


Un isotopo si definisce stabile se non si trasforma (trasmuta) in qualcos'altro (isotopo o elemento) ad energia inferiore o, se lo fa, ha un tempo di decadimento talmente lungo da non essere stato misurato sperimentalmente. Il Carbonio 14 è, perciò, un isotopo radioattivo non stabile (il suo tempo di dimezzamento sappiamo essere di soli 5700 anni), mentre Carbonio 13 e Carbonio 12 sono isotopi stabili. Allo stesso modo, i tre isotopi stabili dell'Ossigeno descritti prima (16, 17 e 18) sono accompagnati da un'altra decina di isotopi radioattivi il cui tempo di decadimento è di pochi minuti.
In natura gli elementi che posseggono isotopi stabili sono 21, tra questi vi sono l'Idrogeno (1H e 2H), il Carbonio (12C e 13C), l'Azoto (14N e 15N), l'Ossigeno (16O, 17O e 18O) e lo zolfo (32S, 33S, 34S e 36S). Come è facile intuire il numero che precede, in apice, il simbolo dell'elemento è il numero di massa (A), che come abbiamo detto caratterizza gli isotopi. Dal momento che la massa è un elemento discriminante per il loro riconoscimento, lo strumento che permette di rilevare i diversi isotopi si basa su tale caratteristica; si tratta dello spettrometro di massa, il cui utilizzo è ormai parte integrante delle tecniche analitiche applicate alla bioarcheologia.

Gli isotopi dei diversi elementi sono in grado di fornirci informazioni diverse. Ad esempio gli isotopi dell'Ossigeno ci possono aiutare nella ricostruzione dei climi e degli ambienti del passato, mentre quelli dello Zolfo ci forniscono esclusivamente dati di natura paleonutrizionale, ma avremo modo di tornare in seguito su questo argomento.

Come vi sentite? Certo, non si può negare che l'argomento sia alquanto ostico e, per questo, vi invito a lasciarmi commenti e feedback, segnalandomi soprattutto se siete interessati al tema. In ogni caso continuate a seguire i prossimi post: vi assicuro che, quando saremo arrivati al termine del percorso che ci attende, per voi la bioarcheologia degli isotopi stabili non avrà più segreti.

martedì 8 luglio 2014

Trisomia 21 e archeologia: scoperto un caso di 1500 anni fa

Nel corso di uno scavo condotto in una necropoli a Chalon-sur- Saone datata al V-VI secolo in Borgogna, sono stati rinvenuti i resti di un bambino/infante le cui caratteristiche scheletriche appaiono correlabili con la sindrome di Down. Si tratterebbe della più antica attestazione certa di tale particolare condizione genetica.
Lo studio dei materiali scheletrici, condotto da Maïté Rivollat dell'Università di Bordeaux, ha messo in evidenza una serie di caratteristiche peculiari, riscontrabili soprattutto a carico del cranio. Esso appare, infatti, largo, con ossa del neurocranio sottili e porzione basale appiattita, tutte caratteristiche comuni negli individui affetti da sindrome di Down. 
Key features of the skull indicate that the owner of this 1500-year old skeleton had Down's syndrome <i>(Image: SPL)</i>
Anche se è plausibile che questo problema genetico - che ricordiamo è dovuto alla presenza di una terza copia (o di una sua parte) del cromosoma 21 - abbia accompagnato l'umanità in tutta la sua storia, i casi attestati in archeologia sono piuttosto rari.
Le caratteristiche generali della deposizione non differiscono da quelle di tutti gli altri inumati della necropoli e ciò ha fatto ipotizzare ai ricercatori francesi che il piccolo - o la piccola - non fosse trattata diversamente dagli altri, anche se i problemi a carico delle capacità cognitive e dello sviluppo fisico dovevano essere evidenti. 
Anche se si è dichiarato d'accordo con la identificazione del caso di sindrome di Down, John Starbuck - dell'Università dell'Indiana - ricercatore che ha di recente descritto una figurina Tolteca che presentava caratteristiche compatibili con la trisomia 21, ritiene che sia azzardato escludere qualsiasi discriminazione a carico dell'infante per la difficoltà di estrapolare simili comportamenti da una sepoltura o dai materiali scheletrici.

Bibliografia:  International Journal of Paleopathology, DOI: 10.1016/j.ijpp.2014.05.004

mercoledì 23 aprile 2014

Non è tutto... avorio quel che luccica

Accade spesso, leggendo report di scavo o lavori di vario genere, di imbattersi nella letteratura archeologica in manufatti la cui materia prima è vagamente definita come “osso o avorio” senza giungere ad una più puntuale determinazione, ed è ancora più raro trovare un’identificazione della materia prima dei manufatti che non solo giunga alla definizione dei prodotti ottenuti da denti di animale di media e grossa taglia, ma distingua anche l’avorio ricavato dalle zanne d’elefante (che potremmo definire “vero avorio”) da  quello, ad esempio, ottenuto a partire da incisivi e canini d’ippopotamo (che potremmo definire avorio sensu lato).
Tale distinzione è non solo possibile, ma spesso anche semplice. Messa a punto, in collaborazione con il CITES ed il WWF, per l’identificazione dei manufatti in avorio d’elefante il cui commercio e la cui fabbricazione sono oggi vietati dalle norme internazionali, la tecnica d’esame si basa su semplici osservazioni autoptiche da condursi ad occhio nudo o con l’ausilio di lenti o microscopi a basso ingrandimento ed è totalmente non distruttiva.

Le zanne d’elefante, da cui si ricava l’avorio, sono gli incisivi superiori (a crescita continua) dell’animale che l’evoluzione ha adattato e modellato sulla base di particolari esigenze. Esse hanno, perciò, la stessa composizione di tutti gli altri denti, ovvero smalto, dentina e cemento, tuttavia lo smalto forma solo un sottile cappuccio esterno che viene perduto immediatamente dopo l’eruzione del dente. Per questo motivo, le zanne d’elefante sono interamente formate da dentina, materiale molto più tenero e “modellabile” rispetto al rigido, fragile e duro smalto. La dentina è caratterizzata da tubuli cavi, microcanali che si irradiano dal centro del dente (la cavità pulpare) verso la superficie esterna, il cui diametro oscilla tra 0,8 e 2,2 micron (Espinoza, Mann 1991). Essi hanno perciò diametro molto minore rispetto i canali che caratterizzano la struttura delle ossa (canali haversiani, visibili con un semplice microscopio ottico o lente d'ingrandimento 10x) e necessitano di alti ingrandimenti per poter essere visibili.

Superficie di manufatto in osso al microscopio ottico (20x). Le strutture dei canali haversiani appaiono ben evidenti.


Le sezioni trasversali delle zanne d’elefante mostrano invece una caratteristica unica: le linee di Schreger. Si tratta di strutture variamente definite in letteratura (arabescature, chevrons, ecc.) che formano una sorta di scacchiera curvilinea incrociandosi con angoli ben definiti. Esse sono ben visibili nei pressi della superficie esterna della zanna, mentre si fanno meno evidenti nei pressi della cavità pulpare.

Sezione trasversale di zanna d'elefante. Le visibili strutture a scacchiera curvilinea sono le caratteristiche linee di Schreger, elemento diagnostico per l'identificazione dell'avorio elefantino (avorio sensu stricto).


La presenza delle linee di Schreger su manufatti permette quindi facilmente l’identificazione della materia prima da cui sono stati ricavati.

Frammenti di pettini in avorio provenienti da una necropoli siciliana dell'età del Bronzo con evidenti linee di Schreger.


Incisivi e canini di ippopotamo, al contrario, non presentano le linee di Schreger. La sezione trasversale del dente è caratterizzata, se osservata con una semplice lente a 10 ingrandimenti, da strati di materiale  densamente impilato in livelli concentrici separati da linee sottili.

Sezione trasversale di canino di ippopotamo. Si noti l'andamento concentrico degli strati di dentina


Per le loro dimensioni e per l’elevato spessore della dentina,  i denti di ippopotamo sono stati spesso usati nel mondo antico, e non è raro imbattersi in manufatti fabbricati a partire da tale materia prima.
A tutti coloro che volessero approfondire le tecniche di riconoscimento dell'avorio elefantino e dei suoi sostituti si consiglia la lettura di:

Espinoza E., Mann M., 1992. Identification guide for Ivory and Ivory Substitutes. World Wildlife Fund and Conservation Foundation (Consultabile on-line all'hurl http://www.cites.org/eng/resources/pub/E-Ivory-guide.pdf)

Hornbeck, S., 2010. Ivory: Identification and regulation of a precious material, National Museum of Aftrican Art Conservation Laboratory, Smithsonian, http://africa.si.edu/research/ivory.pdf

Krzyszkowska. O., 1990. Ivory and related materials. An illustrated Guide, Classical Handbook 3, Bulletin Supplement 59, Institute of Classical Studies, London.

martedì 8 aprile 2014

I nostri cari, aterosclerotici antenati...

Che il mondo dei nostri antenati non fosse proprio un’isola felice lo sospettavamo un po' tutti. Guerre, scorrerie, parassiti, infezioni batteriche e virali contribuivano, infatti, a mantenere bassa l’età media di morte delle popolazioni del passato, ma l’idea che alcune patologie - apparentemente legate allo stile di vita del mondo moderno - fossero loro risparmiate è sempre stata una sorta di “pensiero diffuso”, anche nel mondo degli archeologi.
Le ricerche paleopatologie, tuttavia, hanno progressivamente smontato anche questa errata opinione. Anche se certi radicati, quanto improbabili, assunti sono duri a morire (ho sentito con le mie orecchie affermare che “le carie nella preistoria erano rare perché il consumo di zuccheri era quasi nullo”, e non si trattava di uno studente), l’esame dei resti umani da parte degli specialisti ha dimostrato che patologie che, di solito, mettiamo in relazione con fattori reputati “moderni” come l’inquinamento dell’aria o il fumo hanno, in realtà, origini molto più antiche di quanto non si pensi.
Non deve quindi apparire sorprendente la scoperta di un gruppo di ricerca dell’Università di Durham che ha riscontrato la presenza di individui affetti, già 3000 anni fa, da aterosclerosi ad Amara West in Sudan. Gli scheletri esaminati presentavano, infatti, tracce delle minuscole e sottili placche calcificate che rivestono le arterie degli individui affetti da questa patologia, placche che, progressivamente, ostruiscono il lume arterioso causando anche trombosi e infarti. Gli scheletri esaminati sono correlabili ad individui di vario status sociale e morti ad un’età compresa tra i 35 e i 50 anni, quindi relativamente elevata per l’epoca.
La bioarcheologa Michaela Bender e la paleopatologa Charlotte Roberts hanno sottolineato l’importanza del rinvenimento che si aggiunge a quello di un individuo che presentava metastasi tumorali proveniente dalla stessa area e risalente al 1200 a.C. circa, soprattutto perché è molto difficile trovarne le prove su uno scheletro umano. 
Se è vero che fumo, obesità e stress sono tra i fattori che contribuiscono all’insorgere della patologia, è anche vero che fattori altrettanto nocivi erano presenti nella vita quotidiana della comunità di agricoltori che popolava quest’area situata a circa 750 Km a Nord di Karthoum. Ad esempio l’esposizione prolungata al fumo generato dalla cottura dei cibi, ma anche dalla produzione di manufatti fittili e dai forni per la metallurgia, può essere stata una delle cause che ha contribuito allo sviluppo dell’aterosclerosi in questi individui.
Non si tratta, però, della prima attestazione di aterosclerosi in popolazioni così antiche. Uno studio, pubblicato sulla rivista medica Lancet, condotto su 137 corpi mummificati risalenti a varie epoche. provenienti da Egitto, Perù e Alaska aveva già dimostrato, attraverso una serie di tomografie, che un terzo circa degli individui esaminati soffriva di occlusione delle arterie dovuti a depositi calcificati.
Un breve video, pubblicato su YouTube, relativo a quest'ultima ricerca, è visionabile all'hurl https://www.youtube.com/watch?v=QGsgXkmhmzk.






lunedì 24 marzo 2014

Il vino nell'Antico Egitto



Sabato scorso ha aperto le porte al pubblico un’interessante mostra dal titolo "Il vino nell'Antico Egitto. Il passato nel bicchiere". La mostra, che sarà ospitata nella chiesa di San Domenico di Alba - in provincia di Cuneo - rimarrà aperta sino al 19 maggio ed espone reperti cronologicamente compresi tra l’Antico Regno e l’età imperiale Romana descrivendo, anche attraverso la documentazione fotografica e iconografica la viticultura in Egitto, la produzione del vino, il suo uso in ambito alimentare e cultuale. La mostra è un'ottima occasione per parlare di vino e vigneti nell'Antico Egitto.



Il vino e le vigne nell’Antico Egitto

"Abbondante è l'uva sulle viti. In essa c'è molto succo, più che in qualsiasi anno. Bevi, inebriati, facendo quello che ti piace."*

Anche se la bevanda più diffusa presso gli Egiziani rimase sempre la birra, il vino conobbe una discreta diffusione sin dall’Antico Regno.
La vite, dono stesso di Osiride, fu sempre tenuta in considerazione presso gli egiziani. Coltivata principalmente nella regione del Delta, soprattutto nella parte orientale, ma anche in alcune oasi, sembra conoscere particolare splendore sotto i Ramessidi.
Nel Ramesseum numerosi contenitori fittili infranti erano stati utilizzati per contenere vino e le iscrizioni che riportavano indicavano la provenienza - l’area del Delta, per l’appunto - e frasi connesse con la caratterizzazione del contenuto che veniva definito come “buon vino della terza volta” o “buon vino dell’ottava volta”. A quale procedimento si riferissero esattamente quelle frasi è difficile saperlo con certezza. Possiamo certamente escludere che si trattasse di pigiature progressive perché il liquido ottenuto dopo otto passaggi del genere sarebbe un prodotto imbevibile per qualsiasi essere umano; secondo Pierre Montet, poteva trattarsi di travasature successive, effettuate per evitare che il vino si rovinasse. L’indicazione “vino dolce “ potrebbe invece indicare l’utilizzo di uve lasciate appassire, in modo da ottenere un’alta concentrazione zuccherina, ma secondo alcuni autori potrebbe trattarsi di vino nuovo, ancora con un forte sentore di mosto. La qualità della dolcezza del vino sembra essere stata particolarmente apprezzata dagli Egiziani poiché diversi testi enfatizzano questo attributo quando vogliono esaltare un buon vino, spingendosi sino al punto di affermare che esso è “più dolce del miele”.

Anche nella tomba di Tutankhamon erano presenti numerose anfore vinarie con iscrizioni in ieratico, talvolta riportate sui tappi in argilla dove troviamo scritto “vino dei possedimenti di Tutankhamon” o “buon vino dei possedimenti di Aton”, frasi che testimoniano l’esistenza di vigne reali di proprietà diretta del faraone e di vigne controllate dal clero che, probabilmente, ne girava una parte, sotto forma di tributo, al monarca.

Nel Papiro Harris Ramses III esalta così la sua opera: “Ti ho fatto dei vigneti da vino nelle oasi del sud e del nord, senza contare altri nella parte meridionale, in gran numero. Si sono moltiplicati nel Delta a centinaia di migliaia. Li ho provvisti di giardinieri presi fra i prigionieri dei paesi stranieri…”.

Le fonti iconografiche ci hanno tramandato diverse scene relative alla vendemmia: i grappoli venivano staccati con le dita, senza l’aiuto di coltelli o attrezzi simili, e sistemati in cesti di vimini che venivano trasportati sulla testa. L’uva, raccolta in bassi bacili, era pestata con i piedi e gli uomini addetti alla bisogna si sostenevano a delle corde, appese ad una trave di legno che si trovava sulle loro teste. In una raffigurazione di pigiatura nella tomba di Mera, visir di Pepi I, alcuni suonatori allietano o, più probabilmente, danno il ritmo agli uomini che “danzano” nel bacile pieno d’uva. Il succo ottenuto defluiva da alcune aperture e veniva raccolto in un catino posto in basso.

La pigiatura, ovviamente, non poteva essere molto efficiente, perciò bisognava procedere ad un’ulteriore spremitura dei grappoli già schiacciati. Questi venivano messi in un sacco robusto che veniva ritorto e strizzato per mezzo di pertiche, mentre un inserviente badava che il prezioso succo non cadesse per terra a causa delle oscillazioni dell’involto.

Il mosto era poi travasato in anfore a fondo piatto per la fermentazione e successivamente travasato, per l’eventuale trasporto, in tipiche anfore di forma allungata, con fondo a punta, grandi anse e collo stretto. Simili contenitori erano portati a spalla o sospesi a una pertica in modo da essere trasportati da due persone.

Tutte le operazioni si svolgevano, per lo più, alla presenza di uno scriba a cui era demandato anche il compito di “etichettare” le anfore apponendovi le indicazioni sulla provenienza, le proprietà o l’annata.

Le immagini della vendemmia e della pigiatura mostrano, talvolta, la figura del serpente sormontata dal disco lunare. Si tratta della raffigurazione della dea Renutet, divinità-madre patrona delle messi, ma anche delle cantine e dell’uva.



*Petosiris, testi 43 e 44.




Il vino nell'Antico Egitto. Il passato nel bicchiere. Chiesa di San Domenico, Alba (CN)

Dal 22.03.2014 al 19.05.2014


martedì 18 marzo 2014

Un blog sulla bioarcheologia, perché?

Creare un blog che parli di bioarcheologia? Ma a chi vuoi che interessi...

Ho deciso di creare un blog tutto mio che parli di bioarcheologia perché non volevo si spezzasse il filo che, per anni, mi ha legato agli studenti che ho avuto la fortuna di veder transitare nel mio laboratorio, per soddisfare la richiesta di informazioni di coloro i quali mi chiedono notizie, curiosità, chiarimenti o bibliografia utile sull'argomento e, infine, per fare sul web quello che - poco modestamente - credo di saper fare meglio: raccontare, spiegare, aiutare a comprendere. Attraverso i miei post spero di riuscire ad accompagnarvi numerosi in un lungo viaggio nel tempo, seguendo il filo d'Arianna del rapporto tra uomo e esseri viventi nel corso di oltre due milioni di anni. Per capire che non siamo stati "altro" rispetto alla natura che ci circondava; e che ancora oggi non lo siamo.